O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l’anno, sovra questo colle
Io venia pien d’angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l’etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l’affanno duri!
Leopardi, cercando e detestando insieme la solitudine, trova nella luna la confidente ideale, discreta e costante: pur nel suo isolamento, si sente ancora parte di una natura palpitante e sofferente (ma viva) e percepisce addirittura nel moto dell’animo e nel ciclo degli astri il senso stesso della vita.
Il poeta parla alla luna; è a lei, amica fidata, che ricorda il se stesso di un tempo: volarono i giorni, cambiarono i motivi del dolore, ma lo scenario di ieri si ripresenta oggi identico. Un uomo piange, la luna ne addolcisce le lacrime e ne illumina i pensieri. Così dal cuore erompe un’invocazione.
Il fitto utilizzo della punteggiatura e la frequenza delle cesure conferiscono alla prima parte del brano un ritmo lento e quasi singhiozzante, che mima bene l’affannosa ricerca di parole di un animo angosciato.
La luna è “graziosa” (gradita, cioè, più che leggiadra) nell’invocazione iniziale; diventa “diletta” in quella finale: il passato è tutto circoscritto, cioè, dalla presenza di una luna che apre e chiude la prima parte della poesia. In Ring-komposition (composizione ad anello) è anche il concetto della rimembranza, al primo e al quindicesimo verso, echeggiante nella fitta rispondenza di parole composte con il prefisso ri- (rimirarti, rischiari, ricordanza), che indica la replica, la continua rivisitazione di uno stesso momento. L’uso del passato è limitato all’imperfetto, che suggerisce l’iterazione: non c’è soluzione di continuità fra ieri ed oggi; il passato si è riprodotto sempre identico a sé fino a diventare presente.
La poesia è fortemente intimistica, come sottolinea l’anafora del pronome personale (io mi rammento…io venia). Eppure, quando il poeta si fa spettatore di se stesso, si identifica nella luna e allora, sul ciglio, il pianto “sorgea”, con una metafora tipicamente astronomica. Tra la natura che risplende e la percezione “nebulosa e tremula” dell’autore, a cui un po’ la malattia agli occhi, molto la dilatazione dovuta dal pianto impedivano un visus chiaro e rassicurante, c’è un’antitesi che ben si attaglia alla poetica dell’autore e alla sua riflessione sul ruolo della natura, ora madre amorevole ora matrigna indifferente alla sofferenza umana.
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