domenica 21 novembre 2010

«Orribil furon li peccati miei; / ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei.» (Purgatorio III, 121-123)

Il "Galata morente" è una copia romana marmorea di una scultura ellenistica, forse realizzata in bronzo. L'opera fu commissionata tra il 230 e il 220 a.C. da Attalo I di Pergamo per celebrare la sua vittoria contro i Galati. Non si conosce esattamente l'identità dell'artista che realizzò l'opera: si ritiene si tratti di Epigono.
La prima schiera di anime che Dante e Virgilio incontrano sulle pendici del purgatorio, è quella degli scomunicati, morti senza essersi riconciliati con la chiesa, e salvi perché pentiti all’ultimo momento della vita. I pentiti dell’”ultima ora”, divisi in diverse categorie, abitano una prima zona del monte, che può definirsi antipurgatorio, dove attendono un dato tempo prima di entrare nel purgatorio vero e proprio ad espiare i loro peccati. Questa singolare invenzione dantesca vuole sottolineare da una parte l’infinità della misericordia divina, pronta ad accogliere tra le sue braccia chiunque si rivolga a lei (vv. 122-123), anche all’ultimo istante; dall’altra il fatto che la giurisdizione ecclesiastica non può decidere in ultima istanza della sorte eterna dell’uomo, ma il suo decreto può esser superato dal rapporto diretto del cuore umano con Dio: anche nel caso più grave – quello della scomunica papale – anche quando i peccati commessi sono “orribili”, come è il caso di Manfredi, un sincero moto di pentimento basta alla salvezza eterna.
La figura scelta qui da Dante, quella di Manfredi di Svevia, uno dei personaggi più potenti del tempo e più gravemente condannati dalla Chiesa, è come l’emblema, posto all’apertura della cantica, di quel supremo valore – incontro tra misericordia e umiltà – che i passi evangelici del Figliuol prodigo e del Buon ladrone insegnano e che la Divina Commedia, ad essi ispirata, tramanda con la forza della poesia.

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